La storia di Eleonora, una ragazza veneta morta di leucemia per il rifiuto suo e dei genitori di affrontare la chemioterapia per combattere la malattia che l’affliggeva è veramente un caso limite, una situazione estrema. I genitori e la ragazza sono ed erano sostenitori delle teorie di Ryke Geerd Hamer, l’ex medico tedesco radiato dalla professione nel 1986 che continua ad esercitare clandestinamente ancora oggi, secondo cui tutte le malattie, quindi anche i tumori, si manifestano nell’organismo in risposta a traumi psicologici irrisolti.
La vicenda avrebbe potuto concludersi in maniera molto diversa, e non con le cure somministrate in Svizzera alla ragazza a base di vitamina C e cortisone. Il tipo di leucemia che affliggeva Eleonora aveva un’altissima possibilità di successo. Eleonora era affetta infatti da leucemia linfoblastica acuta, che è il tumore più frequente in età pediatrica – la ragazza ne era stata colpita a 17 anni – e attualmente la guarigione si verifica nell’80% dei casi. Ciò si può ottenere esclusivamente con protocolli intensi di poli-chemioterapia la cui efficacia è stata dimostrata da comprovati studi scientifici.
Eleonora aveva espresso la propria volontà di non sottoporsi alla chemioterapia convinta dalle teorie dei genitori e anche spaventata per le sofferenze di un’amica che dopo le cure per un tumore non ce l’aveva fatta. In pediatria, e quindi anche nel caso della ragazza di Padova, uno dei capisaldi delle cure è quello di ridurre al minimo proprio l’esperienza del dolore. Per questo da molti anni tutte le procedure sono fatte in sedazione e vengono utilizzati tutti i farmaci (oppioidi compresi) e presidi non farmacologici per controllare il dolore causato dalla malattia o dalla tossicità della chemioterapia.
In merito a questa vicenda il TG4 – dentro la notizia ha ospitato il 1 settembre il Comitato Maria Letizia Verga e Francesca Macheda, una ragazza che si è ammalata di leucemia mieloide acuta all’età di 17 anni e che grazie alle cure e ad un trapianto di midollo osseo oggi è viva e sta bene. Francesca ha raccontato la sua storia fatta di sofferenza, fatiche ma anche di tanta felicità. Ha ricordato che proprio nei momenti più bui della malattia la memoria di chi non ce l’aveva fatta l’ha aiutata a lottare e a non mollare MAI!
Sono passati circa nove anni dal giorno del trapianto di midollo osseo, dal giorno in cui sono nata per la seconda volta.
Avevo solo 10 anni quando mi sono ammalata: leucemia mieloide acuta, la mia vita cambiò da un giorno all’altro. Fui portata d’urgenza all’ospedale san Gerardo di Monza e da qua è cominciato tutto.
Quando ti capitano cose brutte, devi cercare di tirare fuori il meglio di te, tutta la tua forza.. E così ho fatto: ho lottato per vincere e tornare a vivere.
Forse ero piccola e non avevo la consapevolezza della gravità della situazione, forse ero circondata da persone straordinarie che mi tranquillizzavano e mi facevano sentire speciale quasi “normale”, forse per la vicinanza della mia mamma in tutto il mio percorso; ma io non mi sono mai sentita un’ammalata ma una guerriera che combatteva, combatteva per liberare il suo corpo da cellule cattive, combatteva per la sua vita.
Certo la malattia mi ha tolto tanto: i pomeriggi con gli amici, la spensieratezza dell’età, lo sport, i capelli, l’appetito, tanti chili e molto altro, ma mi ha dato molto di più.
Mi ha dato la possibilità di fermarmi, di guardarmi dentro, di riflettere sulle cose importanti della vita, di apprezzarla sempre con i suoi alti e bassi ma soprattutto di trovare dentro di me la forza, la determinazione e il coraggio: tutte cose che non avrei mai pensato di possedere.
Penso spesso a come sarebbe andata la mia vita senza la malattia, ma credo che non sarei la persona che sono diventata oggi, la malattia diventa parte di te, non puoi metterla da parte e anche se passa il tempo i ricordi non se ne vanno mai, risiedono sempre in una piccola parte di te.
Il cammino è stato lungo: a soli 10 anni ho dovuto affrontare parecchie chemioterapie trascorrendo molti mesi ricoverata in ospedale; in tutti questi mesi non sono mai potuta tornare a casa. La mia residenza era la cascina del Comitato Maria Letizia Verga.
Qui eravamo una grande famiglia perché condividevamo tutti lo stesso male, combattevamo tutti la stessa battaglia, tutti nonostante i problemi cercavamo di vivere la vita come normali bambini giocando e andando a scuola grazie ai volontari e alle maestre che quotidianamente dedicavano il loro tempo per noi.
Infine per completare il percorso sono stata sottoposta al trapianto di midollo osseo da parte di un donatore tedesco molto giovane, il mio dolce angelo che non finirò mai di ringraziare.
Dopo il trapianto il mio cammino è stato limpido, non ho avuto nessuna complicazione, mi hanno tolto subito i farmaci e dopo poco ho potuto tornare a scuola e alla mia vita normale; anche se con una maturità speciale che spesso le persone “normali” non possono capire.
Questo cammino mi ha permesso di conoscere persone meravigliose: medici, infermieri, volontari, animatori, insegnanti che mi hanno insegnato tanto: la forza della solidarietà e del coraggio, ad amare la vita e a sorridere delle piccole cose, dei piccoli gesti, ma soprattutto a non arrendermi mai; loro sono diventati per me la mia seconda famiglia perché so che qualsiasi cosa accadrà lì ci sarà sempre qualcuno pronto ad aiutarmi.
Questo pensiero lo dedico a una persona speciale, che purtroppo non è più qui: grazie di avermi insegnato tanto e in particolare a dare un senso alla vita e a sorridere sempre nonostante tutto; tu dicevi che il sogno più bello è quello di avere sempre sogni perché è ciò che ti aiuta a superare le difficoltà e ad andare avanti. Credimi lo farò, lo farò per te..
Questo consiglio lo dedico a tutte le persone che sono in difficoltà, a quelle che lottano per tornare a vivere, a quelle che nonostante tutto sorridono ancora, a tutti i bambini che si stanno curando e ai loro genitori che con una grande determinazione gli stanno accanto
“Non arrendetevi mai, credeteci e sognate sempre”.
GIULIA, 20 ANNI
Sono Marina, ho 33 anni, e a giugno del 1982 a soli tre mesi di vita mi è stata diagnosticata la leucemia linfoblastica acuta. Ero la prima bambina così piccola ad essere curata e fortunatamente tutto è andato bene. Ovviamente non posso ricordarmi quello che è stato, ma questa lettera scritta da mia mamma racconta così quel periodo…
«Siamo al 28 giugno, da circa una settimana dietro alla nuca di Marina mi sono accorta di quattro piccoli rigonfiamenti, forse cisti, la porto da un medico il quale mi consiglia i vari esami del sangue. La mattina seguente mi reco in ospedale con la bimba, che stretta alle mie braccia piange forte. Circa dieci minuti dopo l’esito emocromo bassissimo subito ricovero. Il mondo sembra cadermi addosso e mille pensieri incontrastati passeggiano nella mia mente e s’affollano tutti quanti in un’unica domanda: cos’ha la mia bambina? Vedo i medici parlare tra loro, un andirivieni dalla nostra cameretta all’ambulatorio dei prelievi, facce serie e segnali che si trasmettono fra loro. Io sono terrorizzata, poi il giorno seguente dopo altri esami la tremenda notizia: sospetto di leucemia. In quella piccola stanzetta bianca di ospedale ho pianto tutte le mie lacrime. Guardo Marina e dal suo lettino mi sorride, sembra con i suoi occhioni volermi parlare. È un caldissimo giorno d’estate, un giorno qualunque per tanti, ma non per me; quella parola continua a martellare dentro di me quasi ad ossessionarmi . Era stata fino ad ora una parola estranea, lontana, quasi senza esistenza, ed ora si affaccia con prepotenza sempre di più nella mia mente quasi a farmi impazzire. Dopo altri esami colloquio con i medici e quello che finora era sospetto si è trasformato in una terribile realtà. Come un automa ritorno in cameretta e stringo forte la mia bambina. Ci sono pochissime speranze, i medici sono stati chiari, essendo molto piccola non tutte le terapie sono possibili. Camici bianchi sterilizzati, mascherina sul viso, solo così posso entrare nella sua stanzetta. Nemmeno con le mie labbra posso sfiorare il suo viso e alcune volte solo attraverso il vetro posso osservarla, guardarla, scoprire dal suo viso ogni cambiamento. È iniziata così la terapia, attraverso quella piccola vetrata la osservo di giorno, di notte e ad ogni suo movimento il mio cuore sobbalza nel petto. La bambina secondo i medici reagisce bene alla terapia e sopporta ottimamente le cure, però non è ancora fuori pericolo. Passo giorni di angoscia in quel box dell’ospedale, ma ogni attimo che passa cresce sempre più in me la speranza che la mia piccola possa guarire. Dopo un mese di tensioni, ansie, paure, di dormi veglia durante la notte, arriva finalmente il giorno del ritorno a casa. La bimba non è ancora guarita, però le speranze in me si sono accese e guardandola negli occhi sembra volermi dire: “Coraggio mamma, vedrai, ce la facciamo”. A casa Marina non mi dà preoccupazioni, mangia e cresce bene, però ogni settimana c’è il controllo. Questo calvario è durato tre anni, fra prelievi, controlli e tanta sofferenza per tutti, ma ogni giorno che trascorreva vedevo la mia bambina crescere bene e tutto questo mi dava una nuova spinta per continuare. Ora siamo felici, Marina ha 6 anni e fra poco inizia ad andare a scuola. È una bimba normalissima, guarita completamente grazie ai medici e a Dio. È vivacissima e sprizza allegria dappertutto, un’allegria che contagia tutti quanti. Questa per me è una gioia immensa, la sua malattia ora è soltanto un orrendo ricordo. I piccoli pezzi del mio cuore, trafitti alla notizia dell’atroce sentenza si sono riavvicinati come in un puzzle e hanno formato di nuovo un cuore grande colmo di immenso amore, gioia e gratitudine».
Ora ho 33 anni sono sposata e ho due bimbi; e mi sento di dire a tutte le persone ammalate e ai loro famigliari di non mollare mai… io ne sono la prova data la mia piccola età e la gravità della malattia. Io e i mie genitori ringraziamo di vero cuore tutti i medici dal dottor Jankovic, professor Masera, dottoressa Locasciulli, dottor Uderzo ecc. e tutti gli infermieri del reparto pediatrico ematologico prima della clinica De Marchi di Milano e successivamente del San Gerardo di Monza.
Marina
La nostra cara India Bonati il 23 settembre 2014 è stata sottoposta a trapianto di midollo osseo da un donatore americano che ora le ha fatto avere tanti bellissimi regali.
Il 21 luglio scorso mia figlia India ed io siamo state alla consueta visita di controllo post trapianto presso il Day Hospital dell’ospedale di Monza. È ormai tanto tempo che frequentiamo questo importante Centro e conosciamo il Comitato Maria Letizia Verga e l’operato che svolge nella lotta ai tumori infantili e nel sostegno ai piccoli pazienti e alle famiglie.
Un anno fa India ha ricevuto un dono straordinario: una persona a noi sconosciuta, che vive dall’altra parte del mondo, negli Stati Uniti d’America, le ha donato il midollo osseo, permettendole di guarire dalla leucemia. Abbiamo avuto la possibilità di esprimere la nostra infinita gratitudine scrivendogli poche righe, consapevoli che il valore di quanto ricevuto non potesse essere espresso attraverso le parole, ma sia comprensibile solo con il cuore.
Quando, all’ultima visita di controllo, ci hanno detto che dovevano consegnarci qualcosa di importante, abbiamo subito sperato che si trattasse di un messaggio del donatore che abbiamo soprannominato “Hope” (Speranza), siccome non è possibile conoscere il suo nome.
E invece era molto di più: era addirittura un pacco! Un pacco per India!
È stata una grandissima gioia ricevere notizie da Hope, sapere cosa avesse significato per lui la scelta della donazione e capire come questo gesto arricchisca profondamente sia la vita di chi riceve, sia quella di chi dona. Nel pacco c’erano dei regali per India, scelti per lei e che ha apprezzato moltissimo e una lettera. C’erano anche i famosissimi marshmallow, probabilmente quelli che piacciono ai suoi bambini.
È stato emozionante pensare che questa famiglia abbia pensato a India, scegliendo dei regali per lei da farle avere oltre oceano per renderla felice.
Ora non vediamo l’ora di scrivere la nostra lettera per lui, per informarlo delle condizioni di salute di India, perché possa conoscere e avere testimonianza sempre del miracolo che ha reso possibile.
Grazie Hope
Elisa Franceschini si è laureata presso l’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia in Chimica e Tecnologie Farmaceutiche il giorno 06/11/2015.
Elisa è stata paziente presso l’Ospedale di Monza nel 2000, anno in cui ha subito un trapianto autologo di cellule staminali per una recidiva di Leucemia Linfoblastica Acuta. È stata una paziente del dottor Masera e del dottor Uderzo dei quali conserva uno splendido ricordo, nonostante quel periodo della sua vita sia stato piuttosto “doloroso” (per questo non ama parlarne, infatti chi vi scrive è la sorella).
Crediamo possa far piacere a voi e ai medici che l’hanno curata vedere che Elisa è riuscita a raggiungere il suo sogno anche grazie a chi l’ha seguita un po’ di tempo fa , dai medici, agli infermieri ai volontari della Cascina di cui è stata ospite in quel periodo.
Sofferenza. Difficoltà. Paura. Angoscia. Vulnerabilità. Solitudine. Dolore. Odore di morte. Buio. Forza di volontà. Coraggio. Mani unite. Colori. Speranza. Voglia di vivere. Luce. Resilienza.
Dalle Tenebre si può arrivare alla Luce. Questo è quello che ho imparato sulla mia pelle, che ha marchiato a fuoco la mia vita e che, lentamente, dopo dieci “lunghi” anni di rielaborazione personale, e non solo, mi ha reso una persona differente, una persona “resiliente”.
Era il 13 ottobre 2003 quando, accompagnata dai miei genitori, varcavo, per la prima volta, la soglia del Day Hospital di Monza. Leucemia Linfoblastica Acuta, mi dissero. Tutto quello che riuscivo a vedere erano le teste pelate, bambini dagli occhi così strani che si lamentavano o piangevano coricati nei propri lettini, o che sfrecciavano nei corridoi a bordo di piccoli tricicli colorati. Cosa ci faccio io qui? Cosa c’entro in tutto questo? Tra poco è tutto finito e torno a casa… pensavo…
Oggi ho 26 anni, compiuti da qualche mese, e sono serena nel ricordare tutto questo, pensando a dove sono arrivata ora, e che persona sono diventata. Ma, posso assicurare, è stato buio totale: ho trascorso anni e anni della mia vita intrappolata dentro immagini che non riuscivo a scrollarmi di dosso, dentro rappresentazioni di me stessa e della mia vita cristallizzate e prive di senso profondo, incapace di “far presa” su ciò che ha significato la malattia per me in modo pienamente consapevole.
Laureata con 110 e Lode, alla Facoltà di Scienze Pedagogiche, presso l’Università degli Studi Milano-Bicocca, ho realizzato una tesi dal titolo “Come nasce una perla. La Resilienza tra trauma e rinascita”, e tutto questo certamente non è stato un caso. È nata in me, proprio durante gli ultimi anni di specialistica, dopo esattamente 10 anni da quel 13 ottobre, l’esigenza di riflettere sulla capacità degli esseri umani, di alcuni di essi in particolar modo, di saper trasformare un evento critico potenzialmente destabilizzante, in un motore di ricerca personale potentissimo, rendendo così tangibile la possibilità di riorganizzare positivamente la propria esistenza, avviando un progetto di vita capace di integrare e re-integrare la luce con l’ombra, la sofferenza con la forza, la vulnerabilità e il dolore con la gioia della Vita.
Il “legame con la Bellezza”, parte della tesi a me molto cara, ha certamente costituito lo sfondo di tutto il mio lavoro di riflessione. Difficile non interrogarsi su come poter accedere al significato che il Bello riveste per l’uomo, di fronte alla bruttura e alla disarmonia che una malattia oncologica come la leucemia può esibire e rappresentare, allontanando ogni minimo anelito e aspirazione verso la Bellezza. Oggi, più che mai, siamo parte di una società attratta soprattutto dalla bellezza nelle sue manifestazioni, nei lineamenti e nelle sembianze esteriori; più difficile è scorgere la Bellezza nella sua natura interiore, nella sua essenza più profonda, nei casi in cui ci si deve confrontare con quella realtà dei fatti che, inesorabile, tende a trascinare nella disperazione più totale. Ed ecco che io mi riferisco proprio a quest’ultima fattispecie: perché il Bello non può e non deve fermarsi a una constatazione di superficie, ma va colto nel suo modo di entrare nelle pieghe concrete della vita personale e del suo multiforme manifestarsi. Fermamente convinta che, come si legge nel famoso libro “il Piccolo Principe”, “… solo nella notte si vedono le stelle”, ecco che la Materia Notturna (la malattia) mi ha condotto ad affinare i sensi e a purificare la capacità di ascolto; ascolto di me stessa e ascolto del Mondo. Solo la Notte, con il suo lungo, profondo, infinito silenzio e apparente vuoto, mi ha permesso di collegarmi davvero alla Luce, ove le cose si sono rivelate nella loro più profonda essenza. Qui, certamente, lo sguardo non ha evitato di attraversare la “Notte oscura” della confusione, dell’incomprensione, del disorientamento. Perché è proprio così che ci si sente: immersi in domande esistenziali alle quali non si riesce a trovare risposta, anzi… più si prova a ricercarne un senso, più si ha la sensazione di scivolare in basso, senza alcun appiglio, senza alcuna sicurezza. Tutti gli eventi che ci richiamano alla nostra finitezza, come può essere la malattia, inevitabilmente, recano in sé un forte portato di dolore. Quando sperimentiamo la dimensione dolorosa che accompagna l’esistenza, immancabilmente la crudezza della vita viene messa a nudo dalle forze dell’evento. Quel 13 ottobre, l’abitudine improvvisamente si è interrotta, squarciata da una lama affilatissima, e mi sono ritrovata nuda, sola con i miei pensieri e le mie paure più ancestrali, indifesa, impaurita e massimamente esposta al rischio dell’annichilimento. La mia condizione di malattia persistente ha fatalmente imposto un profondo cambiamento nel mio modo di vivere, nel mio modo di guardare, di rapportarmi alla quotidianità, mutando le prospettive verso cui, prima di allora, avevo indirizzato le mie speranze, le mie aspirazioni, i miei sogni di ragazzina di 15 anni. Le giornate apparivano interminabili, trascorse rinchiusa tra le mura della stanza di ospedale sola con mia mamma, perché i valori troppo bassi non mi permettevano di incontrare nessuno; terminato il periodo di aplasia, qualche volta, quando le gambe riuscivano ancora a sorreggere tremolanti il mio corpicino, potevo concedermi una passeggiata nel corridoio, trascinando con fatica la flebo con la terapia, o, in alternativa, mi facevo spingere in carrozzina avanti e indietro. Tra un ricovero e un altro, quando tornavo a casa, la vita non era molto differente. Erano tanti i momenti trascorsi dietro il vetro della finestra di camera mia, a guardare fuori la vita che passava, a immaginare altre storie possibili, fantasticando sul ragazzo che portava a spasso il cane, o su due innamorati che, mano nella mano, passeggiavano sorridenti. Mi guardavo allo specchio, nostalgica dei miei capelli così lunghi e lucenti che facevano invidia a tutti, e osservavo i miei occhi; ecco che avevano la stessa espressione, forma e luce di quegli occhi che avevo scorto nei bambini il primo giorno di day hospital: ero una di loro. Difficile concepire e gestire tutto questo per me, quando, nel pieno dell’adolescenza, sentivo la mia anima scoppiare, intrappolata e rinchiusa in un corpo così fragile e dolorante; difficile non arrabbiarsi con il mondo intero sapendo che tutti i ragazzi della mia età trascorrevano le giornate spensierati al parco e iniziavano a fare, tutti insieme, le prime uscite serali. Tutto era così lontano da me, tanto che mi sembrava impossibile poter tornare, in qualche modo, a una vita come la loro. Credevo che la sofferenza e il dolore, insidiatisi nelle pieghe più profonde della mia esistenza, sarebbero durati per sempre. In tale contesto non riuscivo a vedere altro, a cogliere che, al di là di quel confine che avevo elaborato e che mi impediva di mantenere una “normale” vita di relazione, tante persone soffrivano e lottavano strenuamente con me.
Con il passare degli anni, però, ho imparato e profondamente compreso quanto sia necessario considerare il dolore non come un fantasma bensì come parte costitutiva della nostra esistenza, qualcosa nel quale ognuno di noi, in dimensioni e forme certamente differenti, può e deve fare esperienza. E così, messo a distanza come oggetto altro da me, il dolore, oggi, non è più tale, è il ricordo di esso, il ricordo di un suono, di un odore acre. Certamente non ho dimenticato quanto, nei momenti di più acuto dolore e disagio, ho sentito, ancor più forte, il bisogno di rendere meno assillanti le domande che richiamano se stessi a rivisitare il proprio vissuto. Momenti in cui cresce la tendenza a rendersi emotivamente impermeabili, avvolti, come una crisalide, dalla voglia di chiudersi in sé per difendersi dall’esterno, con l’effimera illusione di sentire meno male, sbarrando le porte anche a chi si avvicina, pur con l’intento di portare aiuto. Ed ecco che, inevitabilmente, mi sono ritrovata a prendere contatto con le profonde difficoltà, i miei limiti, le mie barriere psichiche. E poi, anche con le mie risorse, le mie potenzialità e le mie energie, le quali hanno ripreso vigore proprio quando tutto sembrava crollarmi addosso. Non ho mai tralasciato l’impegno scolastico; frequentavo la “scuola in ospedale” i primi anni e, successivamente, usufruivo della possibilità di incontrare i miei professori a casa sviluppando un progetto sperimentale. Cercavo il più possibile di stare al passo con le mie compagne di Liceo, seppur le forze non mi permettessero di mantenere la concentrazione per più di mezz’ora su un testo; anche il più semplice esercizio di matematica mi appariva come uno scoglio insormontabile.
Nell’evento che mi ha messo a confronto con una grave malattia, e soprattutto mi ha indotto a una trasformazione non voluta, è stata certamente decisiva l’intenzionalità con cui, dopo la fase iniziale di spaesamento e di shock, mi sono riportata ad essa. Ed è proprio qui che lo sforzo interpretativo e la rielaborazione si sono posti come strumenti ed esercizi esistenziali, giungendo, seppur dopo un tempo alquanto dilatato, all’appropriazione del mio vissuto, della mia storia, in modo pienamente consapevole e autoformativo. Molte sono state le volte in cui mi sembrava di “aver superato tutto”, di essermi lasciata alle spalle il vissuto di un periodo così doloroso, ma il sentire improvviso del cicalino che avvisava della cintura di sicurezza non allacciata o l’odore di una medicina bastavano per catapultarmi indietro nel tempo, trafitta dal suono metallico degli allarmi dei macchinari terapeutici, invasa dal quel senso di nausea che, spesso, accompagnava le mie giornate. Tutto ciò bastava per riportarmi così vivamente in uno stato di incontrollabile sofferenza.
Ed è proprio per questo che credo che il processo di resilienza sia strettamente collegato alla capacità di elaborazione del trauma. Per fare tutto ciò, il mio corpo e la mia memoria hanno attraversato un lento processo di cicatrizzazione e riparazione, utilizzando meccanismi di difesa maturi e funzionali, mettendo in pratica un lavoro semantico, una ridefinizione del significato dell’evento e della rappresentazione del dolore all’interno del mio sistema di relazioni: una metamorfosi nella rappresentazione della ferita. Tale elaborazione, la cicatrizzazione della ferita e la ridefinizione della sua rappresentazione sono dovute però procedere lentamente e consapevolmente, perché si sia vista realizzata la riparazione: una riparazione che tuttavia so non essere completa e definitiva. L’uomo e la sua psiche, si sa bene, non sono materiali semplici, ma macchine viventi complesse: benché “riparate”, non tornano mai esattamente come prima del guasto.
Ecco perché mi sento forte nell’affermare che ora sono una persona differente; una persona che non ha dimenticato o rimosso ciò che ha attraversato, ma che è riuscita, dopo tanta fatica e lacrime versate, a utilizzare tutto il dolore provato in insegnamento di vita, per me stessa e per gli altri. Credo fortemente che la resilienza, dunque, sia riparazione ma anche cambiamento, che nasca da una frustrazione ma possa trasformarsi in opportunità, in possibilità autentica.
Ed è, proprio giunta alla conclusione, che voglio ricollegarmi alla Bellezza. Nel farlo desidero lasciarne traccia con una “piccola” storia (da cui prende origine il titolo alla mia tesi di laurea):
“Quando un predatore entra nella conchiglia nel tentativo di divorarne il contenuto, ma non ci riesce, lascia dentro una parte di sé che ferisce e irrita la carne del mollusco; e l’ostrica si richiude e deve fare i conti con quel nemico, con l’estraneo. Allora il mollusco comincia a rilasciare attorno all’intruso strati di se stesso, co- me fossero lacrime: la madreperla.
Ciò che all’inizio serviva a liberare e difendere la conchiglia da quel che la irritava e distruggeva, diventa ornamento, gioiello prezioso e inimitabile.
Così è la Bellezza: nasconde delle storie, spesso dolorose. Ma solo le storie rendono le cose interessanti…”
Dunque credo fortemente che la Bellezza sia connessa al dolore; che toccando il fondo, si possa prendere uno slancio ancora più forte; e questo significa, a parer mio, nel linguaggio metaforico a cui io spesso ricorro, prendere contatto, durante il nostro doloroso cammino, con qualcosa di raro, una “madre perla” appunto, non con il suo “veleno”, non solo.
Francesca Lai
Dottoressa in Scienze Pedagogiche
Mi chiamo Ludovica Sacchi, ho 21 anni e mi sono ammalata di leucemia linfoblastica acuta all’età di 3 anni e mezzo. Ero appena uscita da una piscina, quando i miei genitori notarono delle strane macchie rossastre sulle mie gambe e braccia, così mi portarono dal mio pediatra per una visita, da lì mi trasportarono in ambulanza al San Gerardo di Monza. Era il luglio del 1997, quando la mia battaglia iniziò. Da quel momento trascorsi molto tempo tra quelle mura colorate da diversi disegni. Nonostante sia passato molto tempo, di quel lungo periodo della mia vita, ricordo molte cose. Quando iniziai le cure, non ero ancora al corrente della gravità della situazione, io pensavo solamente ad essere, come sempre, sorridente, un piccolo terremoto che non stava mai ferma, che aveva sempre voglia di giocare e di parlare. Un giorno, quando non trovai più il mio compagno di giochi dell’ospedale, capii che non era semplicemente tornato a casa, e nonostante la mia giovane età compresi la gravità della “Gleucemia”, così chiamata da me.
Ricordo che dovevo andare spesso in ospedale e a volte trascorrere anche diverse notti consecutive, e questa era la cosa che mi pesava di più perché in questo modo non potevo trascorrere il tempo dopo la scuola materna con la mia cara sorella. Le cure andavano avanti, e ricordo quando mi misero il famoso “tubicino”, chiamato così da me proprio perché mi dimenticavo il nome tecnico “catetere”, che la mia mamma ogni 3 giorni mi medicava con tanta pazienza. Ho impresso nella mente il ricordo di quando mi svegliai dopo l’intervento, con accanto il mio papà che mi stringeva la mano e mi accarezzava il viso, come per darmi la forza, per ricordarmi che lui c’era, era lì, accanto a me, anche se lavorava molto. Infatti era proprio lui che ogni 3 giorni mi faceva le “punturine nel braccio” e per farmi vivere quel momento come un gioco, inventò addirittura una canzoncina.
Vivevo quel periodo con spensieratezza, perché fortunatamente ricevevo molte attenzioni, infatti vedevo l’ospedale quasi come una seconda cameretta personale: nonni che venivano spesso a trovarmi e mi riempivano d’affetto; i miei zii che mi coccolavano; mio padre che appena aveva un minuto libero si catapultava in ospedale, anche solo per darmi un bacio; mia sorella, di soli 6 anni, che veniva a trovarmi, quando i medici le davano il permesso, e mi riempiva di giochi, di pupazzi, cercando di distrarmi il più possibile; mia mamma, sempre al mio fianco, sempre con un sorriso sulle labbra per non farmi vivere il dolore che stava provando. Ero una bambina fortunata.
Il tempo passava e arrivò il momento di iniziare la chemioterapia, che portò dei cambiamenti al mio aspetto fisico: ero già più gonfia per il cortisone, poi più debole fisicamente, ma il problema più grande per me erano i capelli. I capelli iniziavano a cadere e nonostante tutti cercassero di convincermi a tagliarli per fare in modo di rinforzarli, io non volevo perché in quel modo non avrei potuto più farmi la treccia, mettermi i cerchietti, le fasce e le mollette, proprio come tutte le bambine della mia età. Cambiai idea solo grazie alle parole della mitica Marisa che ringrazierò a vita, che prendendomi da parte mi spiegò che se li avessi tagliati mi sarebbero ricresciuti molto più lunghi e forti; così, giocando, i miei genitori mi misero nella vasca da bagno e con la doccia mi tolsero gli ultimi peletti dalla mia testolina. Da quel momento ero molto diversa dagli altri, ero una bambina particolare, additata un po’ da tutti al parco giochi, per strada e alla scuola materna. Un altro ricordo è quello delle lunghe trasfusioni di sangue, che il mio pazientissimo nonno scaldava con le sue magiche mani, mentre io parlavo: gli raccontavo i giochi fatti con i miei amici, la visita che avevo ricevuto dai clown e quante bottigliette di sale colorato avevo creato in sua assenza. Era proprio lui ad accompagnarmi per mano davanti la tanto temuta sala per fare la “puntura sulla schiena”, io sono sempre entrata da sola, perché in questo modo mi sentivo più grande, perché se mi fosse scesa qualche lacrima nessuno mi avrebbe visto, se non il dottor Jankovic.
È proprio dal mitico dottor Jankovic che voglio iniziare i ringraziamenti. Grazie perché lui ha dato una speranza e la forza ai miei genitori; grazie perché lui con la sua calma aveva sempre una parola di conforto nei miei confronti; grazie perché mi ha fatto sempre sentire protetta, perché trasmette a tutti la voglia di voler aiutare. Grazie a tutti i medici e infermieri che hanno avuto una grande pazienza con me, dal primo all’ultimo momento trascorso in quell’ospedale, che mi hanno strappato un sorriso, che hanno lottato per me e con me e che io non smetterò mai di ringraziare. Grazie al Dottor Biagi, che mi prese per mano quando all’inizio della sua meravigliosa carriera, si trovò davanti una bionda peste che non aveva paura di nulla, rincuorava i suoi compagni di sventura, ma allo stesso tempo “pretendeva” di essere visitata solo dal “Dottor Ettore”. Direi che con me questo grande dottore e uomo, di pazienza ne ha avuta anche troppa. Un grazie anche al dottor Rizzari che, con grande disponibilità ha trovato anche il modo di farmi mangiare quando di appetito non ne avevo.
Oggi, a 18 anni dall’esordio, posso dire che io quella temutissima battaglia, che fa molta paura, l’ho vinta con grande successo, perché sono qui a raccontare questo lungo percorso della mia vita con un sorriso sulle labbra, perché se oggi sono così é grazie a ciò che ho trascorso, alle persone che ho conosciuto e a tutte quelle che mi sono state vicine.
Ludovica Sacchi
Anita è la bimba che compare al termine dello spot del mattone realizzato per il progetto “Dai! Costruiamolo insieme!”, la campagna che ha portato alla costruzione del nuovo Centro Maria Letizia Verga per lo studio e la cura della leucemia del bambino. Questa è la sua storia, raccontata da mamma e papà.
La storia di nostra figlia Anita, o meglio, della sua malattia, inizia il 1°dicembre 2009 quando, a neanche due anni e mezzo, in seguito ad un’apparentemente banale influenza le viene diagnosticata una leucemia linfoblastica acuta.
Ma come… proprio a lei che, fino a quel momento, non aveva mai avuto bisogno di un antibiotico? Lei, che era stata allattata al seno con infinito amore fino a 14 mesi? Lei, che tra un lecca-lecca e una mela sceglieva senza esitazione la seconda, buccia compresa? Lei, che amava correre e giocare all’aperto, con qualsiasi clima e temperatura?
Ci siamo ritrovati catapultati all’ospedale San Gerardo di Monza, nel reparto di oncoematologia pediatrica, dove abbiamo conosciuto il dottor Jankovic e il suo gruppo di persone straordinarie, sempre sorridenti, che ci hanno fatto capire che, anche se il percorso sarebbe stato lungo e faticoso, si lottava PER VINCERE, e ci hanno aiutati a convivere, quasi con naturalezza, con il rischio costante di emorragie e infezioni gravi, inizialmente causate dalla malattia, poi dalle cure stesse, che insieme alle “cellule cattive” azzeravano, o quasi, la produzione di cellule del sangue.
All’inizio le mamme “leonesse” e i loro eroici bambini, che giocavano e ridevano con le flebo di chemio attaccate, ci sembravano un po’ matti, come se non si rendessero conto della gravità della situazione… ma ben presto abbiamo seguito il loro esempio: cosi anche noi abbiamo inaspettatamente trovato la forza per affrontare innumerevoli flebo, iniezioni, trasfusioni, prelievi, punture lombari, anestesie. Abbiamo imparato a gestire il catetere venoso centrale (un tubicino “magico” che esce dal petto e consente prelievi e infusioni senza dover bucare continuamente le vene delle braccia), e siamo riusciti a scherzare sugli effetti collaterali delle chemio: “Oh, che pasticcione questo Gaspare Chemio… stava inseguendo le cellule maligne, ma è inciampato, ha perso gli occhiali e ha sparato a un gruppo di cellule pensando fossero cattive, e invece… erano le cellule capellute!!! Vabbè dai, perdoniamolo: presto i capelli cresceranno di nuovo, e saranno ancora più belli di prima!”.
Dopo poche settimane Anita conosceva i nomi, le modalità di somministrazione e gli effetti di tutti i numerosi farmaci che doveva assumere; a volte piangeva (“Una bambina di tre anni può piangere…vero mamma?”), ma non appena stava meglio non si dimenticava mai di segnalarcelo, tranquillizzandoci!
Durante i primi mesi in cui le terapie erano più intense, con day hospital ogni due-tre giorni, e Anita era particolarmente debole ed esposta alle infezioni, siamo stati ospitati in un monolocale in Cascina Vallera, estremamente pratico e confortevole. I “padroni di casa”, Antonio e Maria, ci hanno accolti con affetto e comprensione, facendoci provare il calore della nostra casa di Cavaria, che in quel periodo ci sembrava tanto lontana… In cascina siamo riusciti a festeggiare un sereno Natale con i parenti (scaglionati per evitare il sovraffollamento, pericoloso per Anita), un allegro capodanno con amici (pochi ma buoni) e un simpatico carnevale con gli altri ospiti del residence e i volontari dell’Abio. In particolare tra quei bimbi ci è rimasto nel cuore il piccolo Roman, dolcissimo e sfortunato, con il costume da gatto e l’immancabile mascherina da cui spuntavano due occhioni malinconici e incredibilmente belli…uno azzurro e uno castano!!!
Ora, i due canonici anni di cure sono passati e si stanno rapidamente allontanando, Anita frequenta con interesse la scuola primaria, ogni giorno spazzola a lungo la sua splendida chioma di boccoli dorati, assapora la vita con entusiasmo contagioso, non perde mai l’occasione per manifestarci il suo affetto, è vivace, curiosa, sensibile e, soprattutto, serena. Quando torniamo in day hospital per i controlli, sempre meno frequenti, bacia tutte le infermiere, le impiegate, i dottori veri e i “dottori del sorriso”, guarda con tenerezza i bambini spelacchiati che sono ancora “nelle cure pesanti” e incoraggia i loro genitori, dimostrando con la sua vitalità che guarire si può, eccome!
Noi genitori siamo entrati nella grande famiglia del Comitato Maria Letizia Verga: possiamo esprimere la nostra gratitudine allargando sempre di più la rete di distribuzione di presepi, uova e zucche di cioccolato (siamo riusciti perfino, grazie alla cara amica Giada, a vendere il nostro cioccolato made in Italy a centinaia di svizzerotti!!!), e contribuendo a organizzare eventi per far conoscere alla gente l’associazione e mostrare il meraviglioso ospedale costruito per e con i bambini.
Recentemente siamo stati invitati in teatro a raccontare in pubblico la nostra storia. L’emozione è stata intensa e “benefica”: percepire la partecipazione commossa di tanta gente ci ha aiutati a dare un senso positivo a quello che ci è successo, e ad avvicinarci alla guarigione dell’anima, che, come anche gli altri genitori ben sanno, è più lunga e laboriosa di quella del corpo…
Un grande abbraccio, Karen e Orazio
Ed eccomi qui ad un anno da quel 18 aprile. Da quel giorno, la mia vita è cambiata. Ogni singola cosa è mutata. Non voglio riassumere tutto ciò che è successo in quest’arco di tempo fino ad oggi, assolutamente! La ragione di quel che sto scrivendo, è un’altra. È strano, ma adoro pensare che, senza quest’esistenza nel mondo, adesso non sarei la persona che sono e non rinnego nulla, ma soprattutto, la cosa meravigliosa che la vita mi ha regalato, è stata la leucemia.
Penserete che sono pazza, ma è la verità! È quel che penso realmente. Combatto, giorno dopo giorno, con una malattia strana, che a volte ti fa sentire tre metri sopra il cielo e poi ti fa sentire tre metri sotto terra, una malattia a cui non ti ci abitui mai. Quando mi hanno pronunciato quelle tre parole “hai la leucemia” il mio mondo ha cominciato a tremare, mi sono sentita morire dentro e ho tentato di farlo, più di una volta. Credevo di essere in un film, perché queste cose, si vedono il più delle volte lì… certe cose dovevano e potevano capitare agli altri, non di certo a me.
Ho pianto, tanto, forse troppo! Ho cercato invano un aiuto da parte di coloro che reputavo amici, ma nulla… La mia vita era insensata, vuota.
Poi, un giorno, non so cosa sia successo, so solo che una mattina, guardandomi allo specchio, ho provato un forte desiderio di spaccarlo, farlo in mille pezzi ed è stato lì che ho capito che non dovevo rompere lo specchio, dovevo essere io a cambiare. Ed ecco che Melissa cambia. Melissa riesce ad affrontare 8 cicli di chemioterapia, analisi, esami, ricoveri, febbre da cavallo, notti insonni, vomiti, eppure, a questa malattia devo molto, ne sono grata. Perché è la cosa migliore che mi sia successa, perché senza di lei non avrei mai scoperto la parte migliore di me.
La gente come me, come chi è malato di leucemia o di qualsiasi altra malattia, ha la fortuna di aver toccato il fondo più profondo e sa cosa conta, cosa vale la pena vivere e sentire. È vero, forse non bisogna mai andare troppo a fondo alle cose, restare in superficie in modo che anche il resto del mondo ce ne sia grato, ma per noi è diverso. Ci sarà sempre qualcuno che non ci capirà, che avrà qualcosa di più, che crederà di farci del male ridendo di noi e delle nostre vite che solo apparentemente sono normali, ma abbiamo superato tanti dolori, chemioterapie estenuanti e niente ci può scalfire. Nel corso di essa, ho trovato delle amiche, delle compagne di viaggio, delle sorelle, virtuali in un primo momento, ma presenti e pronte a tutto in nome dell’amicizia poi; persone che mi hanno resa migliore, che mi hanno aiutato a capire che bisogna andare avanti a testa alta, che non bisogna cedere alla paura, che non bisogna mollare mai; persone che hanno saputo trasformare questo anno insidioso e difficile in qualcosa da guardare con occhi diversi, con gli occhi di chi ha avuto comunque tanto amore da rendere questa vita degna di essere vissuta, anche con un cancro. Ho incontrato anche delle persone meravigliose che non ce l’hanno fatta, persone conosciute al day hospital, con cui ho condiviso gioie, dolori e speranze.
Spero ogni giorno di poter essere, con la mia testimonianza, con il mio impegno, con la mia presenza di aiuto a qualsiasi altra persona che si affaccia in questa esperienza di malattia. La strada per sconfiggere il cancro è dura e i momenti di sconforto sono tanti. Nonostante la forza che ci guida e ci spinge, i momenti di crollo sono fisiologici ma, in questo percorso, si possono anche incontrare persone capaci di donare così tanto amore da modificare per sempre la nostra essenza. L’approccio che ho avuto, è sempre stato quello di parlarne, anche con persone con le quali entravo in contatto per poco, perché magari il calvario che ho passato io poteva essere utile a qualcun altro, anche a livello logistico, di informazioni sanitarie. “Come ti sei accorta?”. “Perché?”. “Che strada hai fatto?”. Perché poi alla fine, quando hai una malattia, può servire.
La mia esperienza non è stata una brutta esperienza, malattia a parte, intendo. Ricordo solo un periodo veramente orribile, quando ero senza capelli. Ho un carattere menefreghista, quindi sarei uscita senza niente addosso, ma è la gente che ti compatisce, che ti dà fastidio; certo, sarei stata così anche io, avrei pensato anche io: “Poveraccio, quello cosa sta passando”. È un commento che ti viene spontaneo, ma lo vedi negli occhi delle persone, e non è il massimo. Avere una malattia, a quest’età è orribile. Gli anni più belli, gli anni del divertimento, dei primi amori…
Oggi, mi ritrovo con molte cicatrici, ma una in particolare, è la mia cicatrice di guerra. La trovo bella, mi piace, arreda. E durante tutto il percorso della malattia, non so se era per esorcizzare la cosa, ma ho sempre parlato molto del problema, perché è una cosa che è arrivata nella mia vita, e avevo intenzione di renderla il più normale possibile. Allora mi è venuta una gran voglia di combattere l’ignoranza che circonda questa malattia e quindi, vi chiedo di unirci: il fatto di celarla non aiuta a contrastare questi atteggiamenti. Di tumore ci si ammala, di tumore si muore, ma al tumore sopravvivono (e soprattutto ci convivono) in tantissimi. Quindi, via le parrucche e l’ostracismo.
Io mi chiamo Melissa e ho il cancro.
Melissa Bossi
Mancava esattamente un mese al mio diciassettesimo compleanno e dal CVC (Catetere Venoso Centrale), vedevo defluire piccole ma infinite gocce di chemio, mentre dalle mie mani osservavo scivolare la mia vita insieme a grandi ciocche dei miei capelli ramati. Non me la sarei mai immaginata così la mia festa di compleanno, rinchiusa tra quattro pareti sterili di una stanza d’ospedale e come ‘’buon giorno’’ un prelievo del sangue.
La Leucemia mieloide acuta, che improvvisamente si era impossessata del perfetto funzionamento del mio sangue, aveva preso con sé, oltre ai miei boccoli, venti chili, le serate con gli amici, la spensieratezza adolescenziale e molto altro. Le avevo concesso di prendersi tutto, tranne l’accessorio più importante: IL SORRISO, che ho indossato tutti i giorni, sia durante i quattro cicli di chemio sia durante il trapianto di midollo osseo. Insieme al sorriso, mi sono armata di forza, di speranza e d’ironia, per cercare di scorgere quel piccolo spiraglio di luce e positività in quel mare immenso di buio e sofferenza. Ho ironizzato sulla mia calvizia chiedendo ‘’scusa’’ alle persone che mi stavano vicino se quel giorno non mi ero pettinata, ringraziavo la chemio per avermi fatto cadere tutti i peli, così evitavo di soffrire per la ceretta e, utilizzavo la piantana, che mi portavo dietro 24 ore su 24 per ricevere i farmaci, come se fosse il mio partner di ballo.
Non ho accolto la malattia a braccia aperte, ma ho accolto semplicemente la MIA VITA, con tutti i suoi alti e soprattutto i suoi bassi. Ho amato quella vita che mai e poi mai mi sarei fatta portare via e che, per nessuna ragione al mondo, avrei smesso di amare con tutto il cuore e tutta me stessa. Così tra quelle due uniche scelte che potevo fare: morire o lottare per vivere, ho scelto la seconda! Ho lottato con tutta la mia forza per riprendere nuovamente la mia vita in mano, a costo di rincominciare da capo e di rinascere una seconda volta. Durante il trapianto, ho sentito scorrere la vita di una persona sconosciuta dentro le mie vene e, in quelle ore, morivo e nascevo contemporaneamente.
Così, come una fenice, sono diventata cenere e da quelle ceneri si è rigenerata una nuova Francesca, invincibile, coraggiosa, felice ed entusiasta di spiccare il volo verso la GUARIGIONE. Novanta alla maturità, il conseguimento della patente, l’inizio dell’università, la borsa di studio, nuove amicizie, nuovi amori e la scrittura di un libro di prossima pubblicazione: NATA DUE VOLTE.
È strano, ma il momento in cui cambio pelle e tocco il fondo coincide sempre col punto di una nuova nascita!
Francesca Macheda